Ero sotto il piumone del divano letto a leggere Versioni di me, mentre Marco è andato ad aiutare un suo amico fraterno a
traslocare nella sua nuova casa e tra una riga e l’altra non smettevo di
ruminare sul fatto che io non ce li ho, gli amici fraterni, al massimo amici o
conoscenti zieschi, tranne forse un paio di persone. Insomma ero lì che
rimuginavo sulle solite paranoie degli ultimi 2 mesi quando il ritmo del libro
ha iniziato a prendermi, complice anche una frasetta spuntata a pag 17.
«Perché lo sappiamo i ricordi accettano fin troppo
facilmente la corruzione dei rimpianti» Sarà stata la cadenza della
prosa delle prime pagine, molto istantanea e diretta, un po’ rocchenrò.
Boh.
Boh.
Fatto sta che per la prima volta in 29 anni qualcosa che ho
letto mi ha riportato a qualcosa che ho – o che mi sembra di aver – scritto io.
«Ogni parola che ho scritto è stata un giro di basso che non
ho potuto suonare». E mi è sembrato che suonasse benissimo.
Semplice, dritta e immediata come una canzone degli Zen
Cirus.
77 caratteri di cui andare davvero orgogliosi, mica come
certe attività ottundenti che valgono una pacca sulla spalla con tanto di: «Dovresti
esserne fiera» squittito in sottofondo e fanno venire voglia di andare a fare incetta
di trappole per topi e roditori dalla lingua biforcuta.
Comunque, queste righe per ricordarmi quanto quanto mi
piaccia anche la scrittura più contemporanea e immediata. Dico sempre che sarebbe
bello scrivere con una prosa corposa come quella che mi piace leggere – tipo Balzac
oSinger – però anche questo sound così pieno di rock e di coinvolgimento da XXI secolo non è affatto male.
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