Destra e sinistra in questo Paese sono come due gemelli
siamesi, magari non proprio la stessa cosa, ma si fa un pelo fatica a capire dove finisce uno e dove
comincia l’altro.
E questa cosa non è che l’hai mutuata da quel guitto
furbetto di Grillo, ma ne convieni durante un summit bipartisan in pizzeria,
con una tua amica della destra liberale ti coglie un attimo il senso di smarrimento.
Certo, non la crisi esistenziale che avrebbe steso forse un trentenne di Democrazia Proletaria negli anni Settanta, quando il personale era ancora politico (oggi,
per inciso, il personale son Gran Cazzi
Tuoi e di politico non è rimasto più niente), ma un disorientamento comunque
bello profondo; tipo che oggi magari voterei ancora per Vendola, ma senza lo
stesso entusiasmo di cinque anni fa, per dire: e penso al futuro dell’Italia mi
sembra già sbiadito, e forse era così che ci sentiva in Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. Poi lì
in Krautonia è arrivato l’Adolfo Hitler, e con un colpo di scoreggia ha gasato
tutti quelli che considerava diversamente tedeschi e se dovesse succedere
qualcosa del genere anche in Italia noi gente sifola siamo in cima alla lista.
Ho scoperto che i trentenni di oggi non potranno nemmeno
godersi l’alloro poetico di immortalare la crisi sociale in un capolavoro letterario.
Ci ha già pensato Israel J. Singer nel 1937 (!), pubblicando I fratelli Ashkenazi. Grazie al
Cielo ero seduta quando ho letto della routine di Tevyeh a pagina 197,
altrimenti per lo sbalordimento sarei stincata per terra.
Davvero non mi sembra
che ci sia altro da aggiungere, sulla quotidianità del capitalismo, alle parole
di questo autore yiddish, fratello del nobel Isaac. Settant’anni dopo, nulla si
è evoluto, nemmeno nel passaggio dalla produzione materiale a quella immateriale,
dalla produzione di fazzoletti a quella di appuntamenti telefonici.
In tutto questo la mia passione per la letteratura yiddish
diventa sempre più bruciante, e se credessi nella reincarnazione giurerei che
in una vita precedente vivevo in uno shlet polacco dove ogni venerdì si attendeva il sorgere delle
stelle che inauguravano il sabato e i chassidim danzavano inebriati nel
tramonto infuocato, in viaggio verso il loro rabbino.
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