«Dum loquimur fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero»
Orazio
Orazio
«Cazzo, già le 20?! »
Marco
Marco
Nell’ultimo periodo dai manga alla narrativa mi sono imbattuta per caso (?) in opere che avevano a che fare con il passare degli anni e il ventaglio delle possibilità che di conseguenza si restringe a imbuto. Storie come Solanin o What a wonderful word! dell’ormai abituale Inio Asano, ma anche Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan.
Addirittura Marco l’altra sera mi ha mostrato queste tavole di Oddecomics e ho iniziato a sentirmi un filo accerchiata dall’argomento.
C’è da dire che da noi i sintomi della crisi da crepuscolo della
gioventù compaiono intorno ai trent’anni., ma in altri posti insorgono drammaticamente
prima.
da quelle parti iniziano a porsi i Desolanti Interrogativi Sul Fallimento intorno ai 24, appena finita l’università.
Dev’essere perché la società collettivista di quelle parti è molto più rigida, metodica e organizzata. Laurea, lavoro, famiglia, si susseguono con un rigore che ti fa rivalutare l’italica elasticità italiana nello scivolare fuoricorso e nel convincerti che a vent’anni hai ancora tutta la vita davanti.
A giudicare dai fumetti che ho letto, ai nipponici va molto peggio, tanto
cheda quelle parti iniziano a porsi i Desolanti Interrogativi Sul Fallimento intorno ai 24, appena finita l’università.
Dev’essere perché la società collettivista di quelle parti è molto più rigida, metodica e organizzata. Laurea, lavoro, famiglia, si susseguono con un rigore che ti fa rivalutare l’italica elasticità italiana nello scivolare fuoricorso e nel convincerti che a vent’anni hai ancora tutta la vita davanti.
Inoltre, ho l’impressione che i nipponici , essendo una
nazione superavanzata, abbiano affrontato molto prima di noi certe situazioni,come
quella del precariato.
Da loro i precari si chiamano freeter e il fenomeno è nato come una forma di rivolta giovanile al rigore della vita nel Sol Levante, che innumerevoli strati di sberluccicoso kawaii e carinerie non riescono a dissimulare.
Da loro i precari si chiamano freeter e il fenomeno è nato come una forma di rivolta giovanile al rigore della vita nel Sol Levante, che innumerevoli strati di sberluccicoso kawaii e carinerie non riescono a dissimulare.
tra università e mondo del lavoro è realmente drastica. Il giorno prima sei un punk che sfoggia un’imponente cresta ossigenata e quello dopo sei un aspirante impiegato ligio al dovere in giacca e cravatta.
Davvero in Giappone firmare un contratto di lavoro significa rinunciare a tutto il proprio tempo e a ogni forma di libertà. Sempre in un fumetto di Asano, La ragazza in riva al mare, il padre di uno dei protagonisti lavora nell’industria dei videogiochi e dorme spessissimo in ufficio.
Quindi, udite udite, è una rivoluzione quando una volta,
tornando a casa, ha una notizia da dare
al figlio «Dal prossimo anno mi spostano in un’altra sezione della ditta. Da
adesso riuscirò a tornare a casa tutte le
sere, e di sabato e domenica non lavorerò più» (corsivo mio). Vien quasi da
ringraziare d’essere bamboccioni e scarrafoni di mammà.
In Giappone la scelta è tra precarietà e sfruttamento: o sei condannato a sentirti perennemente un outsider parassita o sacrifichi vita, sogni e famiglia in nome del successo aziendale.
Però dalle storie che si sentono in giro, quelle che ti confidano sottovoce al pub , che ti riportano gli amici degli amici sui loro conoscenti o corrono rapide e senza far rumore tra i messaggi privati di Facebook si potrebbe anche pensare che noi, brillanti italiani genio & sregolatezza non solo abbiamo imparato la lezione giapponese, ma l’abbiamo addirittura superata: superlavoro e garanzie abbattute a colpi di accetta ormai qui vanno a braccetto, il tutto condito con quel tocco di competitività importato dagli USA che aggiunge un pizzico di pepatissimo stress alla ricetta di una carriera nell’Occidente contemporaneo..
A differenza di quello nipponico, che è ancora collettivista, il mondo americano ruota intorno all’individuo, e il punto focale non è tanto compiere con abnegazione il proprio dovere come dalle parti del Sol Levante, ma realizzarsi , eccellere (o ammantarsi di un alone di perfezione) come individuo e primeggiare sugli altri, schiacciarli, se serve, per avere successo. Successo che mai come oggi è una condizione impalpabile e intangibile. Bei tempi gli anni ’80 quando Succ€$$o=Soldi.
Nel 2013, fare le scarpe al prossimo non è più solo una faccenda da calzolai, riguarda un sacco di gente che fotte gli altri senza avere nemmeno chiaro il motivo per cui lo fa dal momento che il lavoro è quello che è, già tanto se se ne ha uno, figurarsi se ti danno anche più money.
E anche in questo caso l’italico Far West ha saputo fondere
la lezione asiatica a quella statunitense esasperando il senso del dovere e
incentivando la lotta per la supremazia nel branco lavorativo, come teorizzava
qualche anno fa Richard Sennett in La Cultura del nuovo capitalismo.
Ciliegina sulla torta, come osservavo all’inizio in sottofondo a tutto questa condizione tardo giovanile c’è il logorio della consapevolezza che il tempo scorre.
Ciliegina sulla torta, come osservavo all’inizio in sottofondo a tutto questa condizione tardo giovanile c’è il logorio della consapevolezza che il tempo scorre.
«Il tempo è un
bastardo, giusto? E tu vuoi farti mettere i piedi in testa da quel bastardo?».
Scotti scosse la
testa. «Il bastardo ha già vinto». ( Indovinato! J. Egan Il tempo è un bastardo p.383).
Da noi e in America succede un bel po’ più tardi che a est, ma
c’è un momento di solito «quando sono passati vent’anni» che ti guardi indietro
e che il film della tua vita non ha molto a che vedere con la sceneggiatura che
avevi scritto da adolescente ed è
venuto fuori un mix tra Godard, un
horror di serie B, Sclero Movie, la sceneggiatura di Vacanze (col cazzo!) di Natale XXIII e
un documentario a camera fissa che mostra le evoluzioni di una mosca che ronza
sull’obiettivo. E quel dittero che danza e non lo sa forse sei proprio tu
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