Sto leggendo Dio di Illusioni di Donna Tartt. Sì, lo so che avevo stroncato la seconda parte de Il Cardellino, ma la sua prosa mi è sembrata comunque magnifica, e poi ha vinto il Pulitzer. Quindi ho deciso di darle un'altra possibilità. Ora che ho quasi finito anche questo romanzo mi domando perché i giovanissimi protagonisti dei suoi libri sono sempre alcolisti o fattoni. Non tossici da strada, tutti ragazzini altoborghesi o almeno di classe media ma con una disinvoltura verso gli alcolici e le droghe che mi ha lasciato un filo perplessa.
In Dio di illusioni i personaggi non fanno in tempo a farsi passare la sbornia che sono tutti di nuovo ubriaco e ogni pagina è avvolta da quell'incertezza tremula da quarto o quinto bicchiere. Poi, nello specifico di Dio di illusioni, i sei protagonisti sono una specie di isolata confraternita fissata col greco e affascinata dal loro seducente docente. Tipo che chiacchierano in greco antico!
Mi ricordo che in quarta o quinta ginnasio ogn tanto mi sono chiesta anch'io come sarebbero suonati certe canzoni di Ligabue o dei Nirvana tradotte nella lingua di Omero ma non è che la cosa si sia spinta più in là di un paio di versi.
Come ne Il Cardellino l'ossessione per la cultura del vecchio continente è incarnata dal dipinto di Carel Fabritius, in Dio di illusioni tutto ruota intorno a Dioniso e alla sua lingua, venerata in modo ossessivo, quasi malsano. C'è un qualcosa di febbrile nelle pagine che mi ha ricordato Delitto e castigo (che è pure citato, ma senza menzionare la fonte, ovvero il povero, vecchio Dostoevskij).
Sembra quasi che la Tartt e i suoi personaggi siano rosi da una specie di invidia del peana, tipo Europeo è bello, Americano fa schifo. Ma faccio ancora fatica a metterne a fuoco il motivo. Strano che a volte i romanzi che consideriamo imperfetti ci ossessionino di più di quelli che schiaffiamo direttamente nell'empireo dei capolavori.
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