lunedì 17 giugno 2013

Leggi Napoli e poi scrivi?


Nella pigra conversazione del dopocena salta fuori il discorso su Ovidio, che è uno smagliante aspirante scrittore.
Uno che la passione per la scrittura la sente così forte che è andato a vendere i propri romanzi porta a porta. Un tale slancio missionario, col cazzo che ce l’avrei.
Scrive, legge, collabora, instaura legami, socializza con gli addetti ai lavori, bazzica nell’ambiente.
Eccetto le prime due, con le restanti attività non ho tanta dimestichezza.
Eppure, la capacità di creare rapporti in grado di cullare e far crescere un proprio progetto mi affascina.
Chi sostiene che si tratta di rapporti utilitaristici o leccate di culo non ha capito la perizia e la tecnica richiesti da questo tipo di pratica.
Intessere rapporti è un’arte nobile e invidio, invidio ferocemente chi eccelle. Per scrivere bene ci vuole costanza, fatica e lavoro ma per farsi leggere l’1% è ispirazione, il 99% azzeccata comunicazione.
Pure il romanziere e scopritore letterario Giuseppe Inferno ha detto a questo Ovidio: “Aspettiamo nuovi romanzi”. Ovvero, nuovi romanzi tuoi. E intanto il giovane Ovidio continua a scrivere e a intrecciare, infaticabile, rapporti e relazioni nel fertile sottobosco letterario.

Una routine simile richiede una rigorosa fiducia in se stessi.
Ma perché scrivere e soprattutto – farsi leggere – per alcuni di noi è un tarlo divorante?
Qualche giorno fa, dopo aver finito ZeroZeroZero (qui, nel mio scaffale Anobii la recensione) cercando info su Roberto Saviano ho scovato questo articolo di Alessandro Piperno, che osserva

«Il desiderio di essere amato, la competizione, la richiesta continua di protezione e di riconoscimenti, la suscettibilità. Tutto questo fa di Saviano un suddito onorario del regno di Edipo.
“Mia madre è una donna bella con un carattere da colonnello che si è ammorbidito con gli anni. La mia vita è stata il tentativo di dimostrarle che ero meglio di quello che sembravo. Temo mi considerasse una specie di intellettuale inconcludente”».

C’era anche una scena in una puntata de Il Testimone di Pif che mi è sembrata illuminante. Nel reportage dedicato a Saviano e al suo ritorno a Napoli per presentare il nuovo libro, lo scrittore sale sul palco sotto la luce di una luna stupenda, accolto da un applauso così caloroso che sono venuti a me gli occhi lucidi. Sembrava un abbraccio.

E forse è per questo che alcuni di noi provano così disperatamente a scrivere. Per un’ingenua ma irrinunciabile speranza che gli altri possano vedere per un attimo il mondo come lo vediamo noi. Non che la nostra prospettiva sia migliore, ma forse ad animarci è l’urgenza di sentirci capiti. Perché siamo convinti di avere da dire qualcosa che valga la pena di raccontare.
Anche se quando proviamo a dirlo a voce ci seccano le parole in bocca e ci sentiamo goffi, isolati con idee appiccicaticce che non riusciamo a toglierci dalla testa.

Si scrive per riscatto?
Si scrive come si va alla rivoluzione?


Circa a 2/3 del romanzo Il resto di niente di Strano dopo la condanna del patriota Emanuele De Deo a Napoli nel 1794 si riflette:
«Quali sono le motivazioni dei ragazzi? Perché un giovinetto intelligente, di famiglia agiata, lasciato solo e libero a studiare nella meravigliosa città, invece di godersela, la vita, in una Napoli così bella, profumata, preferisce chiudersi nei salotti fumosi, sciupare il tempo in discussioni oziose? Giocare alla politica, per cambiare un mondo che nessuno sa se potrà mai diventare nuovo?»
Il salotto fumoso di chi scrive si riduce a un tavolo col portatile appoggiato sopra per fare una partita a letteratura.
Strano poi, continua:
«Certi ragazzi sono come Dio, generosi e sciocchi. Si costruiscono in testa le immagini orgogliose di d’un mondo, s’incapricciano a dargli vita: appagano in ciò brame d’infinito amore?»
Forse.

Ma questo è solo un aspetto della verità. Per quanto riguarda il mettersi a scrivere per quel che ne so c’è anche qualcosa di più comico, immediato e liberatorio.
Il microscopico, salvico quotidiano.
Per lavoro – quando mi va proprio di lusso – ho a disposizione una ventina di righe creative al giorno per presentare un prodotto o – più spesso – un servizio. Dal momento che prodotti e servizi si ripetono con il passare del tempo diventa difficilissimo scrivere qualche riga davvero creativa ed efficace per ognuno: poi, di solito si lavora col fuoco al culo e non ci si può permettere di dedicare troppi minuti a congegnare qualcosa di davvero divertente: il tempo stringe e i refusi son sempre in agguato. Si rischia di diventare meccanici e ripetitivi, il lavoro è faticoso.

Eppure ogni tanto ci si toglie lo sfizio di abbandonarsi a un guizzo di entusiasmo. A volte mi capita di vedere chi corregge quello che ho scritto mettersi a ridere. L’onda di una risata che per un attimo travolge un volto, concentrato, tirato e teso.


Uno scroscio di liberatoria allegria che strappa un secondo di euforia al collega che potrebbe essere l’unica persona che legge il mio calembour messo insieme in quattro e quattr'otto. Per una persona ormai poco incline a cercar di entrare nel giro, quella sghignazzata furtiva, quando arriva, è tutta la mia pacca sulla spalla degli addetti ai lavori. L’epifania di uno dei sensi della letteratura anche di quella infima: un ludico momento di esilarato sollievo.

1 commento:

  1. Si scrive un po' anche per non dimenticarsi, diceva Isabel Allende e dico io. Ma che vuoi farci, buttarsi nella comunicazione 2.0 significa proprio perdersi e il paradosso, per chi ancora come te (e pure io!), sogna una scrittura da "salotto fumoso", risulta incomrpensibile :)
    Ma almeno c'è quella pacca simbolica sulla spalla, ogni tanto!

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