domenica 30 giugno 2013

Habemus smarthpone!



«Se ciò che ti circonda non ti piace, cambialo» recitava un vecchio slogan.
La tecnologia contemporanea offre un'alternativa più easy: «Se la realtà non ti piace aggiungici un filtro Instangram». Un tocco di hipsterismo,  che illumina e avvolge di una patina indie la banalità quotidiana da postare  al volo – carpe diem – su Facebook.
Tutto questo potenziale di lirismo mobile dà da pensare sulla quantità immane di comunicazione, narrazione, e poesia che si può produrre in maniera estemporanea.
Tanti saluti all’arte dell’antichità che veniva scalpellata sui feldspati con sudore e fatica: oggi basta un click sul cellulare e si liberano sul web una miriade di suggestioni – tipo le foto a latere della SdV -.
Frammentarie – è vero – ma perché cimentarsi con la fatica di un grande romanzo quando a portata di polpastrello hai la possibilità di pubblicare tutto quello che vuoi? 


La risposta ce l’ha data nel 1847 il solito buon Balzac che in La cugina Bette ritrae perfettamente l’artista aspirante Canova ma privodi volontà nella figura dell’ambizioso sculture che:

 «parlava mirabilmente di arte, era sempre, agli occhi dell'alta società, grande artista, per il modo di parlare, per le sue spiegazioni critiche. Ci sono delle persone di genio a Parigi che passano la loro vita a parlarsi e che si accontentano di una specie di gloria da salotto».

Sostituite Parigi con Milano e i salotti con i social network, i Navigli e le app creative, e forse sarete d’accordo con me che Balzac aveva previsto l’aria culturale che avrebbe tirato negli anni 10’ del XXI secolo con il ritrattino sagace di  questo Wenceslas Steinbock  un grande scultore di piccoli oggetti. Perché l’atto del creare, ci ricorda il guru Honoré:

 «è una lotta sfibrante, temuto e insieme amato da quelle belle e potenti costituzioni, che spesso ne restano stroncate. Un grande poeta dei nostri tempi, parlando di questo lavoro terribile, diceva: -Mi ci metto con disperazione e lo lascio con dolore -»

Riuscite a percepire la lotta in uno scatto e in una didascalia di una manciata di caratteri da condividere al volo con amici, nemici e contatti?
Ti senti supercoolissimo, ye ye al cubo e ti volano via le ore che manco te ne accorgi. Come ammonisce ancora HdB:

«Dei grandi artisti, come Steinbock, divorati dall'immaginazione, sono stati giustamente chiamati sognatori. Questi mangiatori d'oppio cadono tutti nella miseria, mentre, sostenuti dall'inflessibilità delle circostanze, sarebbero stati dei grandi uomini».

Cerco quindi di non farmi risucchiare dal potenziale social del mio smartphone (tra l’altro oneroso come un bebè con le sue richieste di cover e pellicole antimpronte e piani dati) che ha mandato in pensione il mio vecchio sillypone perché a catturare attimi son capaci tutti, ma la vera sfida riservata a pochi è di disporli in una qualche trama. Se me lo dimentico, ricordatemelo, please (via sms, Fb, piccione viaggiatore o scapelotto sul coppino).

domenica 23 giugno 2013

Feroci invalide domiciliate nel paese caldo



Con quest’afa umida e appiccicaticcia ci si corica sperando di non passare dallo stato solido allo stato liquido nel corso della notte. Marco ormai è rassegnato a ridursi in vapore acqueo entro mezzanotte.

A volte mi sveglio nel cuore della notte e invece della sua testa mi ritrovo a fianco un paio di piedi:
inizio a sospettare la sua mutazione genetica in un allucefalo, poi mi rendo conto che si è solo girato dall’aria parte, per finire nella traiettoria di uno sparuto filo d’aria.

Che poi, le sostanze esalate da quel pestifero fornelletto antizanzare potrebbero davvero alterare i nostri geni: gli insetti non li tiene certo lontani dal momento che stamattina, spolverando dietro il divano letto Marcasalingo ha trovato uno scarafaggio che è corso a nascondersi le tra le cuciture.
Minimo me lo ritrovo stanotte sul guanciale che muove le sue amichevoli antennine (breaking news: la notte scorsa mi sono effettivamente imbattuta nello scarafaggio, che se ne stava quieto sul tappeto del bagno ed è stato tristemente finito da Marco a colpi di Crocks).

Nonostante le  sue due grandi finestre mi aggiro serenamente in mutande per la Scoreggia di Versailles, il caldo scioglie anche qualsiasi residuo di senso del pudore. Se qualcuno riesce ad adocchiarmi le tette – già minuscole di loro - a così grande distanza e senza cannocchiale né lenti di ingrandimento, potrei anche gridare al miracolo o – in alternativa – convincermi che sia Superman in persona a passarmi ai raggi X.

lunedì 17 giugno 2013

Leggi Napoli e poi scrivi?


Nella pigra conversazione del dopocena salta fuori il discorso su Ovidio, che è uno smagliante aspirante scrittore.
Uno che la passione per la scrittura la sente così forte che è andato a vendere i propri romanzi porta a porta. Un tale slancio missionario, col cazzo che ce l’avrei.
Scrive, legge, collabora, instaura legami, socializza con gli addetti ai lavori, bazzica nell’ambiente.
Eccetto le prime due, con le restanti attività non ho tanta dimestichezza.
Eppure, la capacità di creare rapporti in grado di cullare e far crescere un proprio progetto mi affascina.
Chi sostiene che si tratta di rapporti utilitaristici o leccate di culo non ha capito la perizia e la tecnica richiesti da questo tipo di pratica.
Intessere rapporti è un’arte nobile e invidio, invidio ferocemente chi eccelle. Per scrivere bene ci vuole costanza, fatica e lavoro ma per farsi leggere l’1% è ispirazione, il 99% azzeccata comunicazione.
Pure il romanziere e scopritore letterario Giuseppe Inferno ha detto a questo Ovidio: “Aspettiamo nuovi romanzi”. Ovvero, nuovi romanzi tuoi. E intanto il giovane Ovidio continua a scrivere e a intrecciare, infaticabile, rapporti e relazioni nel fertile sottobosco letterario.

Una routine simile richiede una rigorosa fiducia in se stessi.
Ma perché scrivere e soprattutto – farsi leggere – per alcuni di noi è un tarlo divorante?
Qualche giorno fa, dopo aver finito ZeroZeroZero (qui, nel mio scaffale Anobii la recensione) cercando info su Roberto Saviano ho scovato questo articolo di Alessandro Piperno, che osserva

«Il desiderio di essere amato, la competizione, la richiesta continua di protezione e di riconoscimenti, la suscettibilità. Tutto questo fa di Saviano un suddito onorario del regno di Edipo.
“Mia madre è una donna bella con un carattere da colonnello che si è ammorbidito con gli anni. La mia vita è stata il tentativo di dimostrarle che ero meglio di quello che sembravo. Temo mi considerasse una specie di intellettuale inconcludente”».

C’era anche una scena in una puntata de Il Testimone di Pif che mi è sembrata illuminante. Nel reportage dedicato a Saviano e al suo ritorno a Napoli per presentare il nuovo libro, lo scrittore sale sul palco sotto la luce di una luna stupenda, accolto da un applauso così caloroso che sono venuti a me gli occhi lucidi. Sembrava un abbraccio.

E forse è per questo che alcuni di noi provano così disperatamente a scrivere. Per un’ingenua ma irrinunciabile speranza che gli altri possano vedere per un attimo il mondo come lo vediamo noi. Non che la nostra prospettiva sia migliore, ma forse ad animarci è l’urgenza di sentirci capiti. Perché siamo convinti di avere da dire qualcosa che valga la pena di raccontare.
Anche se quando proviamo a dirlo a voce ci seccano le parole in bocca e ci sentiamo goffi, isolati con idee appiccicaticce che non riusciamo a toglierci dalla testa.

Si scrive per riscatto?
Si scrive come si va alla rivoluzione?


Circa a 2/3 del romanzo Il resto di niente di Strano dopo la condanna del patriota Emanuele De Deo a Napoli nel 1794 si riflette:
«Quali sono le motivazioni dei ragazzi? Perché un giovinetto intelligente, di famiglia agiata, lasciato solo e libero a studiare nella meravigliosa città, invece di godersela, la vita, in una Napoli così bella, profumata, preferisce chiudersi nei salotti fumosi, sciupare il tempo in discussioni oziose? Giocare alla politica, per cambiare un mondo che nessuno sa se potrà mai diventare nuovo?»
Il salotto fumoso di chi scrive si riduce a un tavolo col portatile appoggiato sopra per fare una partita a letteratura.
Strano poi, continua:
«Certi ragazzi sono come Dio, generosi e sciocchi. Si costruiscono in testa le immagini orgogliose di d’un mondo, s’incapricciano a dargli vita: appagano in ciò brame d’infinito amore?»
Forse.

Ma questo è solo un aspetto della verità. Per quanto riguarda il mettersi a scrivere per quel che ne so c’è anche qualcosa di più comico, immediato e liberatorio.
Il microscopico, salvico quotidiano.
Per lavoro – quando mi va proprio di lusso – ho a disposizione una ventina di righe creative al giorno per presentare un prodotto o – più spesso – un servizio. Dal momento che prodotti e servizi si ripetono con il passare del tempo diventa difficilissimo scrivere qualche riga davvero creativa ed efficace per ognuno: poi, di solito si lavora col fuoco al culo e non ci si può permettere di dedicare troppi minuti a congegnare qualcosa di davvero divertente: il tempo stringe e i refusi son sempre in agguato. Si rischia di diventare meccanici e ripetitivi, il lavoro è faticoso.

Eppure ogni tanto ci si toglie lo sfizio di abbandonarsi a un guizzo di entusiasmo. A volte mi capita di vedere chi corregge quello che ho scritto mettersi a ridere. L’onda di una risata che per un attimo travolge un volto, concentrato, tirato e teso.


Uno scroscio di liberatoria allegria che strappa un secondo di euforia al collega che potrebbe essere l’unica persona che legge il mio calembour messo insieme in quattro e quattr'otto. Per una persona ormai poco incline a cercar di entrare nel giro, quella sghignazzata furtiva, quando arriva, è tutta la mia pacca sulla spalla degli addetti ai lavori. L’epifania di uno dei sensi della letteratura anche di quella infima: un ludico momento di esilarato sollievo.

domenica 9 giugno 2013

La testa tra le nuovolette: Ancora sul manga di Inio Asano + Varie ed eventuali


«Comunque sia... un fumetto dev'essere interessante e divertente, sono requisiti fondamentali.
Il mondo è brutto, i lettori vogliono sentimenti positivi e facili da comprendere (...) Non ho detto che sia sbagliato che l'autore si riveli attraverso la sua opera. Solo che... alla  maggior parte delle persone non interessa affatto... conoscere quello che provi tu, so che speravi il contrario».

Così parlò il redattore della casa editrice a Sachi Nanjo nel  nono volume di Buonanotte, Punpun. Questa parte metafumettistica del manga che si sta sviluppando negli ultimi numeri mi piace tantissimo. Questo aspetto della trama inizia a acquistare consistenza quand,o nell'uscita precedente, Sacchan svela a Punpun i suoi intenti «Non un manga che ti fa dimenticare la realtà. Bensì un manga che ti permette di combattere contro la realtà!!».
Che nella sceneggiatura  di un manga imperniato sull'impossibilità di comunicare con gli altri suona come un bell'invito alla rivolta. 


La nipponisàscion della sottoscritta sta diventando sempre più frenetica e incontrollabile, accompagnata dall'adeguata (?) colonna sonora.



Per affinità di suggestioni geografiche avrei dovuto aggiungere anche Siamo al centro del mondo degli 883, ma in realtà tra le canzoni di Max Pezzali  che ultimamente ascolto in loop c'é La donna, il sogno e il grande incubo, brano dall'estetica poco nipponica e molto più bonelliana, ma che per qualche motivo mi fa sempre pensare a Katy Verija, forse perché qualche volta compare con la sua faccia secca e rapace nei miei sogni più inquietanti (una volta addirittura mi dava ripetizioni di matematica!), così mi sveglio in preda a un sudato batticuore.

Credo che tra me e Dylan Dog ormai il passo sia breve. Ormai me lo ripeto in ogni mattina di abbagliante isolamento:
Quando si sono scartate tutte le soluzioni razionali, rimane un solo campo d'indagine: l'incubo e dintorni.
Perché non mi prendo un paio di occhiali da sole? Perché?

martedì 4 giugno 2013

La giovinezza ormai è obsoleta - Il Giappone, Gli USA, L'Italia e il tempo che passa anche senza prendere l'aereo


«Dum loquimur fugerit invida
 aetas: carpe diem, quam minimum credula postero»
Orazio


«Cazzo, già le 20?! »
Marco




Nell’ultimo periodo dai manga alla narrativa mi sono imbattuta per  caso (?)  in opere che avevano a che fare con il passare degli anni e il ventaglio delle possibilità che di conseguenza si restringe a imbuto. Storie come Solanin o What a wonderful word! dell’ormai abituale Inio Asano, ma anche Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan.
Addirittura Marco l’altra sera mi ha mostrato queste tavole di Oddecomics e ho iniziato a sentirmi un filo accerchiata dall’argomento.

C’è da dire che da noi i sintomi della crisi da crepuscolo della gioventù compaiono intorno ai trent’anni., ma in altri posti insorgono drammaticamente prima.
  da quelle parti iniziano a porsi i Desolanti Interrogativi Sul Fallimento intorno ai 24, appena finita l’università.
Dev’essere perché la società collettivista di quelle parti è molto più rigida, metodica e organizzata. Laurea, lavoro, famiglia, si susseguono con un rigore che ti fa rivalutare l’italica elasticità italiana  nello scivolare fuoricorso e nel convincerti che a vent’anni hai ancora tutta la vita davanti.
A giudicare dai fumetti che ho letto, ai nipponici va molto peggio, tanto che
Inoltre, ho l’impressione che i nipponici , essendo una nazione superavanzata, abbiano affrontato molto prima di noi certe situazioni,come quella del precariato.
Da loro i precari si chiamano freeter  e il fenomeno è nato come una forma di rivolta giovanile al rigore della vita nel Sol Levante, che innumerevoli strati di sberluccicoso kawaii e carinerie non riescono  a dissimulare.

 tra università e mondo del lavoro è realmente drastica. Il giorno prima sei un punk che sfoggia un’imponente cresta ossigenata e quello dopo sei un aspirante impiegato ligio al dovere in giacca e cravatta.
Davvero in Giappone firmare un contratto di lavoro significa rinunciare a tutto il proprio tempo e a ogni forma di libertà. Sempre in un fumetto di Asano, La ragazza in riva al mare, il padre di uno dei protagonisti lavora nell’industria dei videogiochi e dorme spessissimo in ufficio.
Lì la cesura
Quindi, udite udite, è una rivoluzione quando una volta, tornando a casa,  ha una notizia da dare al figlio «Dal prossimo anno mi spostano in un’altra sezione della ditta. Da adesso riuscirò a tornare a casa tutte le sere, e di sabato e domenica non lavorerò più» (corsivo mio). Vien quasi da ringraziare d’essere bamboccioni e scarrafoni di mammà.

In Giappone la scelta è tra precarietà e sfruttamento: o sei condannato a sentirti perennemente un outsider parassita o  sacrifichi vita, sogni e famiglia in nome  del successo aziendale.
Però dalle storie che si sentono in giro, quelle che ti confidano sottovoce al pub , che ti riportano gli amici degli amici sui loro conoscenti o corrono rapide e senza far rumore tra i messaggi privati di Facebook si potrebbe anche pensare che noi, brillanti italiani genio & sregolatezza non solo abbiamo imparato la lezione giapponese, ma l’abbiamo addirittura superata: superlavoro e  garanzie abbattute a colpi di accetta ormai qui vanno a braccetto, il tutto condito con quel tocco di competitività importato dagli USA che aggiunge un pizzico di pepatissimo stress alla ricetta di una carriera nell’Occidente contemporaneo..

A differenza di quello nipponico, che è ancora collettivista, il mondo americano  ruota intorno all’individuo, e il punto focale  non è tanto compiere con abnegazione  il proprio dovere come dalle parti del Sol Levante, ma  realizzarsi , eccellere  (o ammantarsi di un alone di perfezione) come individuo e primeggiare sugli altri, schiacciarli, se serve,  per avere successo. Successo che mai come oggi è una condizione impalpabile e intangibile. Bei tempi gli anni ’80 quando Succ€$$o=Soldi.
Nel 2013, fare le scarpe al prossimo non è più solo una faccenda da calzolai, riguarda un sacco di gente che fotte gli altri senza avere nemmeno chiaro il motivo per cui lo fa dal momento che il lavoro è quello che è, già tanto se se ne ha uno, figurarsi se ti danno anche più money.
E anche in questo caso l’italico Far West ha saputo fondere la lezione asiatica a quella statunitense esasperando il senso del dovere e incentivando la lotta per la supremazia nel branco lavorativo, come teorizzava qualche anno fa Richard Sennett in La Cultura del nuovo capitalismo.
Ciliegina sulla torta, come osservavo all’inizio in sottofondo a tutto questa condizione tardo giovanile c’è il logorio della consapevolezza che il tempo scorre.

«Il tempo è un bastardo, giusto? E tu vuoi farti mettere i piedi in testa da quel bastardo?».
Scotti scosse la testa. «Il bastardo ha già vinto». ( Indovinato! J. Egan Il tempo è un bastardo p.383).

Da noi e in America succede un bel po’ più tardi che a est, ma c’è un momento di solito «quando sono passati vent’anni» che ti guardi indietro e che il film della tua vita non ha molto a che vedere con la sceneggiatura che avevi scritto da adolescente ed è venuto fuori un mix tra Godard, un horror di serie B, Sclero Movie, la sceneggiatura di Vacanze (col cazzo!) di Natale XXIII e un documentario a camera fissa che mostra le evoluzioni di una mosca che ronza sull’obiettivo. E quel dittero che danza e non lo sa forse sei proprio tu